Prendete la difesa degli ultimi, conditela con un manifesto green, una spolverata di diritti civili. Infornate nel digitale e lasciate cuocere a media temperatura; il progressismo è servito. Un piatto ricco, succulento, che fa gola a molti partiti di centro sinistra.
Cosa rappresenta oggi il progressismo e perché in tanti movimenti cercano di occupare quell’area?
Sono dati noti, quelli che riguardano il trend della distribuzione della ricchezza in Italia, in Europa e nel mondo. Sempre meno persone posseggono, producono e consumano più di quanto possa fare una netta maggioranza che si impoverisce e tende ad essere posta ai margini della società. Un fenomeno iniziato con l’attuazione delle politiche neoliberali, sfociate nella crisi finanziaria di un decennio fa, a cui fece seguito la nascita di movimenti di piazza e di rete poi definiti populismi. Oggi, dopo il fallimento di questi ultimi, si nota in tutte le democrazie occidentali, un fenomeno assoluto, legato all’astensionismo.
Nell’astensionismo si collocano ormai stabilmente i ceti meno abbienti e parte del ceto medio. Un bacino di potenziali elettori che in Italia conta circa 12 milioni di persone (dato su astensione alle politiche settembre 2022). Di gran lunga il più grande partito d’Italia, un partito che tutti vorrebbero mobilitare.
Non si fatica ad immaginare che gran parte dei 10 milioni di cittadini italiani che si trovano tra povertà assoluta, relativa e rischio povertà si collochino in questo partito.
Lo scenario è identico, o quanto meno molto simile, a tantissimi Paesi occidentali. Scenario che spinge i partiti di centro sinistra ad occupare un campo incerto ma potenzialmente impressionante. Succede in Francia, come negli Stati Uniti, dove Biden, in difficoltà in termini di consensi, nelle ultime uscite pubbliche ha rilanciato un’agenda progressista.
Succede in Italia, dove Giuseppe Conte da tempo lavora per traghettare su quel campo il Movimento 5 Stelle, trovandosi però a dover fare i conti con una concorrenza agguerrita. Il Partito Democratico infatti, da poco, ha inserito all’interno del suo logo l’indicazione “progressista” per marcare il territorio, ed oggi, in coerenza con il posizionamento, ed in antitesi speculare ai conservatori di destra, guidati da Giorgia Meloni, propone come segretaria Elly Schlein.
Un campo, quello progressista, in cui si collocano però molte altre forze politiche, con ambiguità e contraddizioni, ma presidiando un terreno che nessuno vuole lasciare all’altro. Ma è davvero così allettante quel campo? A ben vedere no.
Così configurato il campo progressista si rivolge ad un elettorato di sinistra, dove insiste una galassia di partiti che per storicità e dinamiche note, hanno polarizzato il proprio voto. Il Movimento 5 Stelle per trovare un varco, è costretto così a sovrapporsi alla galassia del centro sinistra, e forzare la mano su alcuni temi identitari che però rischiano di non fare breccia in un elettorato che preferisce astenersi e che, per condizioni economiche, spesso anche culturali, viene mosso da incertezza, paura e negazione.
In tempi incerti, tra pandemie, guerre, inflazione, finanza creativa, si rinforza la voglia di cambiamento in chi ha strumenti, risorse, possibilità di immaginare, vedere un futuro migliore. Viceversa, in chi non ha sufficienti mezzi o vive condizioni e contesti difficili, matura la paura del cambiamento, del progresso, coltivando una necessità di assicurarsi, di conservare, quel poco di certo che c’è.
Il progressismo così visto quindi è più un posizionamento poco performante, ed una scommessa sul lungo termine, che ha bisogno, per andare in porto, di realizzare un’agenda più ampia, che non si limiti a sostenere gli ultimi ma che parli con le classi agiate, per sviluppare sinergie virtuose. Un’agenda che prepari uno switch ecologista, non lenti, confusionarie e controproducenti transizioni. Un’agenda che dei diritti civili, del welfare, della digitalizzazione, ne faccia una battaglia di equità, trasparenza, giustizia sociale.
Il progressismo non può ridursi ad un posizionamento, ma rilanciarsi in una tendenza, in un insieme di sensibilità che spesso sono trasversali. Basti pensare al progressismo americano che alberga tanto in alcune frange repubblicane quanto in quelle democratiche e che vide in Theodore Roosevelt un pioniere. Fu Roosevelt ad irrompere nello scenario politico con il suo Partito Progressista, che si collocò nel mezzo, tra democratici e repubblicani.
Intanto, più a destra, i conservatori hanno più saggiamente compreso che la torta è ampia e che le fette vanno suddivise. Così Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, presidiano territori distinti e complementari: conservatori-riformisti, liberali e democristiani, che a loro volta rafforzano i valori secessionisti, federalisti, sovranisti, nazionalisti, europeisti, atlantisti e chi più ne ha, più ne metta.
E’ tattica politica, forse esasperata, ma per Giuseppe Conte ed Elly Schlein è l’unico modo per dividersi la torta, non la fetta.