Gli equilibri mondiali sono da tempo in discussione, per il continuo evolvere dello scenario geopolitico, in cui insistono dinamiche uguali e contrapposte, a tal punto da generare conflitti, guerre e contrasti sempre più allarmanti. Potremmo contrapporre NATO, con USA capofila ai BRICS, i Paesi sempre meno emergenti e sempre più affermati, una schiera di Paesi che tendono ad affermare il proprio ruolo internazionale, forti anche di una popolazione pari a 3/5 del totale.
Se il sistema politico dittatoriale, o quanto meno poco trasparente, e quello dell’informazione e dei media, sono scarsamente analizzabili e poco partecipati, dall’altro, le democrazie occidentali, mostrano sempre più una dipendenza diretta da pochi gruppi di potere che vedono nell’astensione una maggior capacità di controllare il voto e dunque i Governi. Succede a tutti i livelli, succede in America, dove tra pochi giorni si voterà per le presidenziali.
Sono gli Stati Uniti l’esempio di un fenomeno sempre più marcato. Le presidenziali americane infatti, non come erroneamente spesso indicato, sono elezioni indirette; ed il popolo vota per i “grandi elettori”, precisamente 538, ovvero il numero dei rappresentanti del Congresso. Proprio negli Stati Uniti l’astensione è una tendenza consolidata. In media, nell’ultimo ventennio, alle presidenziali si è presentato solo il 58% degli aventi diritto. Basti pensare che in Italia abbiamo storto il naso alle ultime politiche, poiché solo il 64% degli italiani è andato a votare.
Gli USA dunque vivono questo indebolimento dell’istituto democratico del voto, per via di fattori collegati alla disaffezione politica e alle regole del gioco; tra queste ultime il gerrymandering, ovvero il ridisegnare i collegi elettorali in modo da controllare il peso degli elettori, o le leggi elettorali che blindano il potere delle segreterie e delle direzioni di partito e sottraggono potere decisionale all’elettore.
Un altro motivo è quello dei finanziamenti dei partiti, collegati sempre più a fondazioni, lobby e centri di potere, che piazzano donne e uomini, come emendamenti e leggi. In America il fenomeno ha dimensioni impressionanti, proporzionali ad una realtà unica, a stelle e strisce.
Le prossime elezioni americane si giocheranno sul filo del milione di dollari, dall’una e dall’altra parte. Donald Trump annovera tra i suoi finanziatori Elon Musk, il re delle criptovalute Tyler Winklevoss, l’attivista pro-israele Miriam Adelson, nonché moglie di un magnate ed editrice del giornale Israel Hayon, Dick e Liz Uihlein delle navi ULine, Keley Warren della società di gasdotti Energy Transfer.
Poi ci sono finanziatori, non certo ultimi come peso, che giocano su entrambi i candidati, così da non perdere la scommessa e assicurarsi il carro dei vincitori. Tra questi la BlackStone, società finanziaria di Stephen Schwarzman come la Renaissance di Robert Mercer, società specializzata in trading, sponsor di Harris quanto di Trump.
A sostenere Kamala Harris, oltre alle fondazioni universitarie e gran parte dell’editoria e dello spettacolo, ci sono tante banche d’affari, come Evercore, Lazard, Centerview, Lone Pine Capital e gli immancabili Soros, padre e figlio. Ed ancora Bill Gates, il coofondatore di Netflix, Reid Hoffman di Linkedin, Jeffrey Katzenberg di Walt Disney.
In un caso come nell’altro, tanti nomi legati ai principali board americani, collegati con i fondi di investimento e le lobby che spesso si nascondono in altre ramificazioni che fanno capo comunque alla finanza, agli armamenti, alle farmaceutiche e alle big tech. Gli americani hanno maggiore consapevolezza del proprio sistema elettorale e vedremo tra pochi giorni se il nome di Kamala, fatto in ritardo per via dell’ingombrante peso del suo predecessore, potrà alimentare una partecipazione nel campo democratico. Così per Donald, che nel suo elettorato ha una base di fanatici ed una, prevalente, che non si riconosce in lui, che è chiamata a stringersi intorno ad un leader spesso imbarazzante.
In ogni caso, chi ha finanziato i candidati, ha già vinto.