Una cura ricostituente è ciò che serviva al Movimento 5 Stelle. Una “costituente” è ciò che serve a Giuseppe Conte per continuare nel suo percorso di normalizzazione del Movimento in ottica di partito tradizionale. Un Di Maio 2 insomma ma con spessore differente e consenso personale legato alla sua figura di Premier, costruita in 3 anni di Governo, in cui certo non gli si può rimproverare la mancanza di un’ottima interpretazione istituzionale.
Deroga dopo deroga il Movimento ha, di fatto, cancellato numerose regole interne, a tal punto da non averne più, o quasi. Anzi, ne ha di nuove, tutte previste dal “nuovo corso Conte”, con il quale i vecchi meet up hanno lasciato posto ai gruppi territoriali che, alla faccia della democrazia dal basso, da regolamento, non hanno alcuna voce in capitolo sulle scelte della comunità che rappresentano. Sono arrivati i coordinatori, rigorosamente nominati dal capo politico, alimentando correnti e correntine tipiche della politica delle segreterie.
Sono arrivati i finanziamenti pubblici, con il due per mille, dopo aver accreditato il Movimento nel registro nazionale dei partiti, non senza difficoltà. Eppure quei denari sul territorio non arrivano, si fermano nella prestigiosa sede di via Nomentana, mentre quelle aperte con sacrifici e autofinanziamento degli attivisti chiudono, spariscono. Come spariscono i consiglieri comunali, ormai dimezzati, come dimezzato il consenso alle europee.
Risultati frutto di scelte basate su alleanze forzate, nonostante le belle parole, disattese al momento della scelta finale. Spariscono i quesiti online, diventano solo ratifiche, a cui partecipa una netta minoranza, ulteriore anomalia di un Movimento nato per contrastare astensione e distanza tra politica e cittadinanza. Alla faccia del nuovo corso Conte.
E stando ad uno degli ultimi quesiti posti, sul “Draghi grillino”, viene il sospetto che sia meglio così. Se non fosse che quel Draghi, una volta accettato lo sgambetto, lo voleva anche Conte. Tanto che il 4, il 7 ed il 10 febbraio, a più riprese e con costanza, l’ex Premier sostenne: «Ho incontrato Draghi, mi descrivono come un ostacolo, evidentemente non mi conoscono o parlano in malafede. I sabotatori cerchiamoli altrove» e ancora «dobbiamo guardare sempre il bene dell’Italia», oppure «il presidente incaricato è persona di spessore: è un interlocutore da prendere in seria considerazione» ed infine, l’endorsement per il quesito tanto contestato «Se fossi iscritto a Rousseau voterei sì (a Draghi premier, ndr) perché ci sono tali urgenze che comunque è bene che ci sia un governo»
La base, ulteriormente frammentata e sconcertata si astenne in massa, ma i pochi votanti seguirono le indicazioni dei vertici e votarono sì.
Le lacune che gli attivisti chiedevano di colmare sono diventate dei solchi, che perimetrano le correnti interne, quelle degne dei migliori partiti politici che, per mantenere potere e poltrone sono pronte a tutto. Al netto delle considerazioni personali, Giuseppe Conte polarizza fiducia e consenso come leader, il Movimento continua ad apparire una stampella neanche troppo utile alla coalizione di centro sinistra. Ma lo scontro tra Grillo e Conte mostra una frattura tra ciò che era il Movimento e ciò che, a furia di deroghe, omologazione e palazzi è diventato. Da una parte chi abbraccia la politica tradizionale, il leaderismo, il sistema. Dall’altra il protagonismo diffuso, il movimentismo e la politica innovatrice.
Da una parte i duri e puri, a cui è attribuita la colpa di essere intransigenti ed esasperati da valori e principi, dall’altra i fruit joy, che come le caramelle sono dolci verso il leader di turno, morbide come le poltrone su cui seggono e appiccicose come quando provi a staccarle dal palato. Sono loro, di fatto, il motivo di questa costituente: non intendono alzarsi da quella poltrona e farebbero di tutto, anche rimuovere il limite del secondo mandato. E se così non sarà, valigie pronte e nuovi lidi ad attenderli, altro che contiani di ferro; politici di razza, la peggiore. Così qualcuno pensa che sia meglio rimuovere la regola piuttosto che rispettarla. E lo scontro cresce.
E con esso il rischio di distruggere definitivamente non solo la credibilità politica, ma anche la capacità di generare nuove classi dirigenti, offrire una visione di politica come servizio e non come esercizio di potere, offrire alla politica italiana una via d’uscita da quel bipolarismo perfetto che rivede e rinsalda il rapporto PD e Forza Italia, come le due forze nazionali da cui dipende il destino di un Paese.
Rimane un interrogativo: dopo 3 anni da capo politico del Movimento, alla luce dei risultati elettorali tutt’altro che lusinghieri, avendo riformato gruppi territoriali, l’azione dei giovani mai pervenuta, avendo rimosso la basica funzione della politica partecipativa online e tanto altro ancora, non risulta abbastanza patetico rivendicare la necessità di avviare un processo costituente, per rilanciare tutto ciò che il capo politico ha fatto nella direzione esattamente contraria a quella perseguita? Cambiare logo, nome ed eliminare il vincolo dei due mandati, non significa creare un altro partito? Ecco allora spiegato il concetto di “costituente”. Forse Giuseppe Conte, come Luigi Di Maio, spera in un partito nuovo a propria immagine e somiglianza, ma con gran parte del lavoro già fatto.